II

La misura umana del Goldoni[1]

È necessario anzitutto liberarsi dal ritratto superficiale e abusato di un Goldoni frivolo e scettico, curioso osservatore sorridente di una realtà che lo interessa solo come materia di ridicolo (quello che fu, ad esempio, un Fagiuoli), e reagire a certe pericolose deduzioni da confronti che vanno semmai adoperati per delimitare l’ambito dei suoi interessi, per qualificare obbiettivamente e positivamente il suo atteggiamento di fronte alla vita, restituendo a questo la sua validità storica e la sua personale originalità.

Goldoni non lotta come l’Alfieri contro il limite della realtà, non sente l’amara scontentezza di una vita e di una civiltà contro cui l’Alfieri reagiva con la sua ansia di infinito, con il suo individualismo titanico, con la sua rivolta preromantica ed eroico-pessimistica[2]. Egli accetta il limite della realtà con fiducia e letizia, sente la ricchezza inesauribile della realtà e la ama, soprattutto la realtà umana, la casa, la città degli uomini, le loro relazioni socievoli, il saldo terreno su cui si svolge l’avventura ricca ed avvincente della vita.

D’altra parte il Goldoni sentí anche fortemente e spontaneamente (non tanto attraverso studi e letture, quanto attraverso un’esperienza viva e congeniale) i valori medi fondamentali della civiltà illuministica quale si venne attuando in Italia specie nelle sue forme piú popolari e comuni. E anzitutto egli sentí con grande serietà il valore della vita, ebbe fiducia nei suoi precisi termini mondani, nell’assenza di ogni spiegazione e destinazione metafisica e trascendente. Donde la chiara antipatia per la filosofia medievale scolastica[3] e, nella scarsa disposizione ad ogni meditazione filosofica, la convinzione che la sua epoca fosse arrivata ad una migliore «filosofia pratica», fatta per la vita, traducibile per lui in filosofia del «buon senso», filosofia per tutti, volta al bene della città degli uomini.

La vita è sentita interessante nell’hic et nunc, nella sua realtà fra nascita e morte; e come il Goldoni non sente il problema metafisico, egli non sente il pensiero tormentoso della morte e se accenna ad essa non vi si indugia, se deve dare, nelle sue lettere, la notizia della scomparsa di un amico, lo fa con un certo distacco e subito ritorna alle cose dei vivi, che tanto seriamente lo interessano e lo commuovono. «Mi dispiace», scrive al Paradisi il 28 marzo 1763, «doverle dare la cattiva nuova – la morte di un comune amico – che ha inteso; ma ella mi ha comandato; ed io ho obbedito. Un buon filosofo dà e riceve con indifferenza le notizie dei morti, sicuro di dover arrivare allo stesso fine. Parliamo ora dei vivi ecc.»[4]. E lo stesso ricordo della scomparsa dei propri amatissimi genitori è per lui occasione di rievocare la loro vita, le qualità del loro carattere e della loro vitalità, non occasione di rimpianto, sospiro e meditazione.

E si pensi, del resto, ad una celebre descrizione della battaglia di Parma cui il Goldoni assisté, nel 1733, dalle mura della città. Se l’orribile visione del campo di battaglia coperto di morti, di cadaveri denudati dai ladri, provoca naturalmente un senso di pietà nel suo animo tutt’altro che insensibile, egli non indugia su questo motivo e si rivolge anzi con piú intima energia alla descrizione della città in festa per lo scampato pericolo, e in questa descrizione di vita la sua pagina si fa piú vibrante e poetica[5].

La visione o il pensiero della morte (assai rari nella sua opera) lo inducono dunque a immergersi con maggiore intensità nella fruizione e nella fiducia della vita.

Né il Goldoni ha speciale interesse per la religione e per i suoi ministri. Non che si possa accettare l’idea del Vittorini, secondo cui l’assenza totale dei sacerdoti dalle commedie goldoniane sarebbe l’indice di una volontaria esclusione di ogni mediazione sacerdotale nella nuova vita civile[6], ché questa esclusione deriva semplicemente dalla proibizione, a Venezia ed altrove, di portare sulla scena personaggi e questioni religiose. Ed anzi, in una lettera da Roma al Cornet del 28 aprile 1759, il Goldoni si rammaricava di non potere utilizzare nel suo teatro il magnifico materiale comico che gli veniva dall’ambiente ecclesiastico romano: «In Roma avrei modo di provvedermene [di nuovi caratteri], ma sono coperti di certe divise interdette alle scene, e lo spogliarli di queste è lo stesso che far veder una donna disabbigliata»[7].

Ma già questa lettera mostra come l’atteggiamento del Goldoni verso i ministri del culto fosse per lo meno molto spregiudicato ed ironico (nella stessa lettera continuava: «La commedia si abbevera ad un vasto fonte, ma alcuni rivoli piú fecondi non soffrono esser toccati e alcune volte le convien soffrire l’astinenza nell’abbondanza...»), e quando a Parigi, nella sua vecchiaia, il poeta poteva esprimersi con maggior libertà, piú volte nei Mémoires egli introdusse ritratti di religiosi, e tutte le volte il suo tono si fa particolarmente ambiguo, quando non si fa apertamente ironico nel tratteggiare caratteri di ipocrisia, di interessata pietà, di secolare abilità diplomatica.

Allorché, per esempio, nella narrazione del suo viaggio di ritorno a casa, dopo l’espulsione dal collegio Ghislieri di Pavia, descrive le tristi giornate passate nella navicella che lo conduce, pieno di rimorsi, verso Chioggia, la sua pagina, all’improvviso, si fa particolarmente umoristica e compiaciuta nel raccontare l’incontro con un domenicano:

Le soir on m’envoye chercher pour souper, je refuse d’y aller; quelques minutes après j’entends une voix inconnue, qui d’un ton pathétique prononce ces mots, Deo gratias; il faisoit encore assez clair, je regarde par une fente à travers de la porte, et je vois un Religieux qui s’adressoit à moi; j’ouvre la coulisse, il entre.

C’étoit un Dominicain de Palerme, frère d’un fameux Jésuite, très-célebre Prédicateur; il s’étoit embarqué ce jour-là à Plaisance, il alloit à Chiozza comme moi: il savoit mes aventures, le Patron lui avait tout révélé, il venoit m’offrir des consolations temporelles et spirituelles que son état le mettoit en droit de me proposer, et dont ma position paroissoit avoir besoin.

Il mettoit dans son discours beaucoup de sensibilité et beaucoup d’onction; je lui voyois tomber quelques larmes, du moins je lui vis porter son mouchoir aux yeux; je me sentits touché, je m’abandonnai à sa merci.

Le Patron nous fit dire qu’on nous attendoit; le Révérend Père n’auroit pas voulu perdre sa collation, mais il me voyoit pénétré de componction; il fit prier le Patron de vouloir bien attendre un instant; ensuite il se tourne vers moi, il m’embrasse il pleure, il me fait voir que j’étois dans un état dangereux, que l’ennemi infernal pouvoit s’emparer de moi, et m’entraîner dans un abyme éternel. J’étois sujet, comme je l’ai déjà annoncé, à des accès de vapeurs hypocondriaques, j’étois dans un état pitoyable; mon exorciste s’en apperçut, il me proposa de me confesser, je me jette à ses pieds. Dieu soit béni, dit-il; oui, mon cher enfant, faites votre préparation, je vais revenir, et il va souper sans moi.

Je reste à genoux, je fais mon examen de conscience; au bout d’une demi-heure le Père revient avec un bougeoir à la main; il s’assied sur mon coffre: je dis mon Confiteor et je fais ma confession générale avec l’attrition requise, et une contrition suffisante; il s’agissoit de la pénitence; le premier point, c’étoit de réparer le tort que j’avois pu faire à des familles, contre lesquelles j’avois lancé des traits satyriques. Comment faire pour le présent? En attendant, dit le Révérend Père, que vous soyez en état de vous rétracter, il n’y a que l’aumône qui puisse fléchir la colere de Dieu car l’aumône est la premiere œuvre méritoire qui efface le péché. – Oui, mon Père, lui dis-je, je la ferai. – Point du tout, répliqua-t-il, il faut faire le sacrifice sur-le-champ. – Je n’ai que trente paules. – Eh bien, mon enfant, en se dépouillant de l’argent qu’on possede, on a autant de mérite que si on donnoit davantage. Je tirai mes trente paules, je priai mon Confesseur de s’en charger pour les pauvres; il le voulut bien, et me donna l’absolution.

Je voulois continuer encore, j’avois des choses à dire que je croyois avoir oubliées; le Révérend Père tomboit de sommeil, ses yeux se fermoient à tout moment; il me dit de me tenir tranquille, il me prit par la main, il me donna sa bénédiction, et alla bien vite se coucher.

Nous restâmes encore huit jours en chemin, je voulois me confesser tous les jours, mais je n’avois plus d’argent pour la pénitence.[8]

Non si tratta solo di una inclinazione, tipica dei Mémoires, a tradurre tutto in tono di lieve e gustosa commedia, a rivedere la propria vita con un bonario umorismo, assecondato dalla singolare congenialità di uno stile che ha assimilato con grande perizia le qualità ironiche del francese settecentesco, ché tutta la scena deliziosa è costruita con uno spirito innegabile di volontaria satira (anche se cosí sottile e misurata) di un costume secolare, di una interessata pietà di cui il Goldoni riflette in maniera abilissima nel suo linguaggio le particolarità di discorso e di azione insinuante e tempestiva.

E del resto, come tutte le volte che egli accenna a culti ed a oggetti di devozione, a santuari (il sant’anello di Perugia o la santa casa di Loreto)[9], la sua pagina si fa lievemente irridente ed ironica (ed anche in questo egli aderiva istintivamente ad una svalutazione illuministica di ogni forma di superstizione e di devozione tradizionale), cosí ogni volta che parla per se stesso (e si badi bene solo per il periodo piú giovanile, per l’epoca della sua incerta formazione, dei suoi entusiasmi inesperti) di crisi di misticismo, di improvvisi impeti di fede e di devozione, il Goldoni li ricollega assai crudamente a momenti di debolezza, ad accessi della sua nevrastenia o, come appare piú indicativo in termini settecenteschi, ai suoi «vapori ipocondriaci»[10].

Né si arrivi perciò ad immaginare un Goldoni combattivo «libero pensatore» o profondamente irreligioso (o magari precisamente aderente alla religiosità deistica massonica[11]): Goldoni non sentiva il problema religioso e la devozione confessionale che facilmente riduceva a superstizione popolare o strumento di interessi egoistici e mondani. E se egli continuava ad accettare i termini piú generali della religione tradizionale e parlava (ma non molto) di Dio e di Provvidenza, egli in realtà li riempiva di un valore istintivamente immanentistico e pratico, li considerava come legati alla sua fiducia nella vita, al suo amore ottimistico per la vita, al suo spontaneo rispetto per l’attività umana in una realtà impensabile per lui senza gli uomini e le loro città, resa seria e interessante dai valori connessi alla vita umana, alla convivenza civile.

Nei limiti del soggetto d’occasione e del tema «commissionato», anche le rime giovanili, i canti sparsi nelle commedie o nei drammi giocosi e soprattutto i Componimenti diversi (pubblicati dall’autore stesso e da lui presentati come «barzellette in verso, dette abusivamente Poesie»[12]) possono servire allo studio del Goldoni per verificare la tipica disposizione del suo animo di fronte alla vita, l’inclinazione naturale dei suoi sentimenti e dei suoi essenziali e semplici ma sicuri ideali, in una notevole conferma e integrazione delle offerte che in tal senso piú direttamente ci vengono dai Mémoires e dalle Lettere. Molti dei Componimenti diversi sono infatti di argomento religioso, ma confermano la fondamentale mentalità goldoniana, estranea ad ogni profonda tensione religiosa e capace soltanto di accettare una «pietà» illuminata, ridotta ai termini essenziali di un cristianesimo umanitario e civile (al massimo entro i limiti della «regolata devozione» del Muratori «il buon prevosto», come egli significativamente lo chiama, privilegiando la «bontà», l’umile condizione di «prevosto» rispetto all’imponente figura dell’uomo di cultura), sempre dentro la cornice di un moderato edonismo, di quella onesta letizia, di quella «gioconditate» che egli definisce «vera felicità dell’uomo onesto»[13]. La stessa vita religiosa delle giovani monache viene rappresentata nel suo aspetto lieto di tranquilla fruizione di modesti e consistenti piaceri: l’agio delle conversazioni femminili, i poco faticosi lavori che insaporiscono le ore del chiostro, le gradevoli refezioni non turbate da preoccupazioni e da passioni disordinate e inquiete. Lo stesso stato conventuale viene cosí singolarmente a prendere una sua luce dalla seppur parziale fruizione della modesta poesia degli «onesti piaceri» della vita, della letizia di una attività piacevole e socievole (il solitario è figura aberrante per il Goldoni e sfugge del tutto al suo mondo cosí intensamente intessuto di rapporti), da abitudini liete e a loro modo familiari:

Che bel diletto nella santa cella

levarsi la mattina innanzi al sole,

salutare il suo Dio, sposa ed ancella,

con sante preci ed umili parole;

e quando il coro a salmeggiar appella,

cantar quell’Ora che cantar si vuole,

udir la messa con divozione,

poscia andar diviato a colazione!

Bevere in compagnia la cioccolata,

or nella propria cella, or dell’amica,

poi l’obbedienza che l’è destinata

far prontamente e non temer fatica.

Chi della sagrestia va incaricata,

chi nell’infermeria l’obbligo implica:

chi alla porta, chi al pan, chi alle aziende,

chi a comandar, chi a provvedere intende.[14]

Tutto punta, in questi componimenti per monache, a ricreare un’atmosfera gioiosa e tranquilla, un’aura di lieto fervore da cui il poeta può ben bandire «la malinconia», tante sono le immagini piacevoli di cui orna la vita conventuale, creando insieme, con mano divertita e briosa, delle vere e proprie stampe del Settecento, delle scene gustose, anche se poco approfondite, di un costume rilevato nei suoi tratti piú congeniali alla simpatia goldoniana per una condizione lieta e ottimistica, per gli interni abitati e caldi di vita socievole. E si leggano in proposito, nel capitolo veneziano al padre Zanetti, la descrizione dei piaceri delle stagioni in un monastero agiato e ben organizzato o, nel capitolo per suor Maria Cecilia Milesi, la briosa scenetta della cucina delle monache dipinta preziosamente in un uovo pasquale:

I peltri s’ha depento in tre fazzae,

e i sechi, e le fersore, e le graele,

e le converse al fogo destinae.

E de novizze, muneghe e putele

una trupa, che porta a cusinar

oseleti, brisiole e polastrele.

Tute quante in t’un fià vol ordenar

chi el lesso, el rosto, chi el stufà o el ragú,

e chi fa le converse desputar.

Chi porta de le legne e buta su,

chi parechia a le inferme el paninbrodo,

e chi beve, e chi sua, che no pol piú.[15]

Naturalmente in questi versi, anche nei loro momenti migliori, i motivi goldoniani non hanno un valore veramente poetico e si sbiadiscono in un esercizio nettamente marginale rispetto alle commedie, ché, malgrado tutto, le necessità dell’occasione e del tema si fan pur sentire. E tuttavia anche in essi affiora quell’atteggiamento goldoniano per il quale tutto ciò che non serve alla vita della città degli uomini è inutile e dannoso, tutto ciò che rompe l’essenziale comunicazione fra gli uomini è addirittura (se Goldoni avesse potuto adoperare tale termine) peccaminoso: cosí l’ipocrisia, grande nemica del Goldoni e del Settecento razionalistico e illuministico, a cui egli oppone, con un tono che si fa serio e persino entusiastico, la sincerità, la franchezza, il senso d’onore.

Quando Goldoni parla di questi valori morali e civili si avverte in lui un accento di serietà, di convinzione, a volte quasi di intima commozione, di lieto entusiasmo. E questi valori, che danno sapore ai liberi vincoli dell’amicizia e dell’amore coniugale, acquistano una maggiore consistenza e compattezza storica quando si riconoscano insieme come valori di una civiltà razionalistica e illuministica e di una società borghese e mercantile nel cui seno si formò il Goldoni, e da cui egli riprese fra gli altri il tipico motivo della «riputazione»: reputazione nel campo degli affari come reputazione nella scala dei valori morali ed artistici. Morale angusta e mercantile? Ma a questo senso della «riputazione», del buon nome corrisponde non l’esteriore «punto d’onore», il puntiglio vano dell’«impegno» da mantenere per far buona figura (che Goldoni attribuisce semmai ai suoi personaggi piú frivoli, ai nobili scioperati e fannulloni), ma il centrale valore dell’onestà, dell’«uomo dabbene», del «cittadino onorato» perché veramente degno d’onore, perché civilmente attivo e leale. Sicché questi valori «borghesi» sono resi intensi ed efficienti dalla loro complessa giustificazione sociale e morale, dalla loro piena storicità, da un senso della vita ottimistico e attivo, legato profondamente ad una condizione sociale che si afferma fiduciosa, persuasa nei suoi ideali di ragione e natura, di saggia, misurata libertà, lontano da prospettive estreme e rivoluzionarie, ma insieme privo di quella paura conservatrice che si può ritrovare in un Metastasio, specie senile, tipico rappresentante di una fase piú arretrata e timida nello sviluppo della civiltà settecentesca.

Su un piano di mentalità e moralità illuministica media e diffusa, il Goldoni vive anche quella disposizione cosmopolitica che lo allontana da ogni forma di «vero spirito nazionale»: donde l’indifferenza di fronte a distinzioni «nazionali» dei valori artistici[16] e l’interesse per i popoli stranieri. E se Goldoni non ha l’atteggiamento combattivo che pur ha il «riformatore» Parini, dimostra ben chiaramente il suo animo di uomo della media civiltà illuministica in infiniti aspetti della sua vita e della sua opera: l’antipatia del borghese, del «cittadino» per ogni sopruso e prepotenza nobiliare, l’antipatia per ogni sopravvivenza di usi feudali e secenteschi (il cavaliere saggio ed onesto, il cavaliere che alimenta la sua nobiltà con la giustificazione dei nuovi valori del lavoro[17] e dell’onestà, non disprezza le classi umili, non afferma la sua nobiltà se non con una maggiore dignità e saggezza – come avviene nel Cavaliere e la dama –, condanna e non accetta il duello, il diritto della spada e della prepotenza), l’antipatia per ogni offesa alla dignità umana e per l’intolleranza[18], l’antipatia istintiva per la professione militare e per la guerra che corrisponde non ad una mancanza di coraggio quanto alla sicura coscienza della superiorità di una civiltà laboriosa e pacifica, della superiorità di un nuovo tipo di «eroe»: il cittadino sollecito dell’agio e del progresso della sua città, della sua famiglia, dei suoi simili, che sarà, con una critica morale piú esplicita e risentita, l’ideale eroe del Parini.

E si ricordi la simpatia del Goldoni per le nazioni nordoccidentali, specie Olanda e Inghilterra, per la loro civiltà ammirata sin nei particolari dell’organizzazione della vita cittadina: e soprattutto per il loro grado di rispetto fra gli uomini, per la loro onestà mercantile, per la loro mancanza di pregiudizi, per la loro modernità e per quella forza di autocontrollo, per quella «flemma» che affascina il Goldoni, non immune in questo da una diffusa tendenza del suo tempo (l’anglomania studiata dal Graf), ma piú originalmente nella sua intima disposizione ad un ideale di tranquillità e di calma che l’uomo goldoniano conforta con la sua vita laboriosa, onesta, con il suo rifiuto non delle passioni e della fantasia, ma del loro sfrenato, eccitato prepotere.

E se nella rappresentazione del «flemmatico» olandese dei Mercatanti o in quella del Filosofo inglese o nella stessa figura centrale dell’Apatista si può notare una certa rigidezza di figurini poco vivi, quando il Goldoni nelle lettere e nei Mémoires ci parla di se stesso, questo ideale dell’uomo tranquillo non solo si fa poetico e vibrante di un calore personale cosí cordiale ed intimo che va calcolato positivamente nella valutazione dell’autobiografia goldoniana, ma si arricchisce e si approfondisce, ben al di là dell’immagine del «buon uomo» di cui parla il Croce[19] o del «gretto piccolo borghese» del Mic[20], con quella sorta di entusiasmo giovanile mai spento per la vita e le sue infinite risorse di esperienze stimolanti e confortanti, con quella fiducia, quello slancio attivo e quella energia sostanziale che superano ogni semplice posizione di scetticismo o di indifferenza.

Il tranquillo, pacifico Goldoni che risparmia le sue forze per mantenerle efficaci negli impegni di lavoro, che oppone nuovo lavoro e nuova fiducia agli insuccessi, che risponde alle numerose difficoltà pratiche proprie ed altrui non con lamenti, ma con nuova attività e con la concreta attuazione dei suoi ideali di solidarietà umana (il fratello per la sua sventatezza si trova in difficoltà, economiche, ed egli ne prende il figlio e lo alleva con sé senza la minima recriminazione), non è una personalità gretta e misera, ché la sua tranquillità non è un egoistico rifugio, ma un modo di vita coerente ai suoi ideali e un mezzo di metterli in pratica piú concretamente ed efficacemente. Né la sua vita e la sua esperienza mancarono del senso dell’avventura e della fantasia, né il suo sguardo attento alla vita degli uomini, alla realtà civile del proprio tempo si può ridurre a semplice curiosità e ad insensibilità per altri aspetti e problemi della vita a cui egli – risoluto e chiarissimo nelle sue scelte – non dà neppure quel rilievo e quell’adesione generica che non manca in altri temperamenti piú superficiali ed eclettici. Egli si occupa solo di ciò che davvero lo interessa e lo commuove, e se noi possiamo bene indicare i limiti della sua visione e del suo sentimento della vita, dobbiamo anche sentire che in quella limitatezza vivono la sua forza e la sua originalità, la sua sincerità estrema e la sua energia: e il suo significato storico.

Anche nel possibile paragone fra i Mémoires e la Vita dell’Alfieri, proprio nei confronti della reazione dei due scrittori al paesaggio e alla natura, non si dovrà puntare su di un facile schiacciamento del «ragionevole» Goldoni da parte del «titanico» e romantico Alfieri. Certo, se si va a cercare nei Mémoires non dirò una pagina, ma un accenno dedicato a descrizioni di paesaggi, di luoghi solitari e suggestivi, non se ne troverà neppure uno. Il Goldoni non sente la natura se non è animata dalla presenza degli uomini, se non è organizzata dagli uomini come sfondo, e quadro delle loro città, come arricchimento di giardini ordinati e frequentabili.

La città è al centro dei suoi interessi. E, si noti subito, non saranno tanto i monumenti artistici nel loro puro valore estetico a colpirlo, ma la città con la sua vita, con il suo agio, con la sua prosperità, con la sua sistemazione urbanistica adatta alla vita degli uomini che la abitano. Si può dire anzitutto che per Goldoni la realtà (quella realtà che lo interessa) è ricca di risorse, è stimolante per l’animo e per la fantasia: la realtà è piú ricca di ciò che si può immaginare e sognare e, per fare un caso estremo, si confronti la reazione del Goldoni di fronte alle città che vede per la prima volta e quella di un Alfieri e di un Leopardi in situazioni analoghe. Mentre il confronto fra l’immaginato e il reale è per Alfieri o per Leopardi sempre a scapito del secondo (la prima visita dell’Alfieri a Parigi, la prima visita del Leopardi a Roma), la realtà non delude il Goldoni ed anzi piú volte di fronte a città che desidera da tempo di vedere (Parigi soprattutto), di fronte a famosi edifici vagheggiati e fantasticati in precedenza, il Nostro ha una uguale reazione: Parigi «ogni dí piú lo sorprende e sorpassa la prevenzione e l’immagine, che in sé si aveva formata»[21], e per l’impressione fattagli da San Pietro a Roma addirittura spiegherà:

J’avois cinquante-deux ans quand je vis ce temple pour la première fois; depuis l’âge de la raison jusqu’à ce tems-là j’en avois entendu parler avec enthousiasme; j’avois parcouru les historiens et les voyageurs qui en font des descriptions exactes et des détails raisonnés; je crus qu’en le voyant moi-même, la prévention auroit diminué la surprise: au contraire, tout ce que j’avois entendu étoit au-dessous de ce que je voyois; tout ce qui me paroissoit exagéré de loin, grandissoit infiniment à mes yeux.[22]

E se questa impressione e l’entusiasmo che riscalda la pagina goldoniana quando descrive nuove città con le loro bellezze, con il loro agio, con la loro vitalità, si ripete in molti punti dei Mémoires, il Goldoni rivela soprattutto questa caratteristica disposizione del suo spirito, questa commozione sentimentale e poetica per la realtà umana, per le sue città, per la natura organizzata dagli uomini, quando egli parla di Parigi (e tutta la terza parte dei Mémoires è singolarmente animata da questa indagine amorosa del Goldoni che ripercorre e rievoca le bellezze, le comodità, la vitalità di Parigi) e, piú ancora, di Venezia.

Anzi nei Mémoires il primo contatto con la sua città (da cui si era allontanato bambino), i ritorni dopo le assenze, sono occasione per pagine vibranti e poetiche, in cui la lontananza nello spazio e nel tempo – Goldoni scriveva i Mémoires a Parigi, quando era sull’ottantina – non porta tanto una nostalgia elegiaca quanto un rinnovato movimento di compiacenza ed uno sforzo di precisazione piú nitida di quelle immagini cosí amate.

E si rilegga la descrizione del primo incontro, a quindici anni, con Venezia, rilevandosi attentamente la gradazione di interesse del poeta che si apre prima alla vista sorprendente, pittoresca e animata della laguna e del bacino di San Marco (con l’implicito piacere per una vita cittadina prospera e attiva), poi al fascino delle vie affollate, festose, fatte per agevolare le comodità e l’incontro degli uomini, sino al rilievo gustato e tutt’altro che meschino di particolari «utili» come il fatto che le strade veneziane son lastricate con pietre «piquetées à coup de ciseau pour empêcher qu’elles soient glissantes»:

Venise est une ville si extraordinaire, qu’il n’est pas possible de s’en former une juste idée sans l’avoir vue. Les cartes, les plans, les modeles, les descriptions ne suffisent pas, il faut la voir. Toutes les villes du monde se ressemblent plus ou moins à aucune; chaque fois que je l’ai revue, après de longues absences, c’étoit une nouvelle surprise pour moi; à mesure que mon âge avançoit, que mes connoissances augmentoient, et que j’avois des comparaisons à faire, j’y découvrois des singularités nouvelles et de nouvelles beautés.

Pour cette fois-ci, je l’ai vue comme un jeune homme de quinze ans qui ne pouvoit pas approfondir ce qu’il y avoit de plus remarquable et qui ne pouvoit la comparer qu’à des petites villes qu’il avoit habitées. Voici ce qui m’a frappé davantage. Une perspective surprenante au premier abord, une étendue très-considérable de petites îles si bien rapprochées et si bien réunies par des ponts, que vous croyez voir un continent élevé sur une plaine, et baigné de tous les côtés d’une mer immense qui l’environne.

Ce n’est pas la mer, c’est un marais très-vaste plus ou moins couvert d’eau, à l’embouchure de plusieurs ports, avec des canaux profonds qui conduisent les grands et les petits navires dans la ville et aux environs.

Si vous entrez du côté de Saint-Marc, à travers une quantité prodigieuse de bâtimens de toute espece, vaisseaux de guerre, vaisseaux marchands, frégates, galeres, barques, bateaux, gondoles, vous mettez pied à terre sur un rivage appellé la Piazzetta (la petite Place), oú vous voyez d’un côté le Palais et l’Eglise Ducales, qui annoncent la magnificence de la République; et de l’autre, la Place Saint-Marc, environnée de portiques élevés sur les dessins de Palladio et de Sansovin.

Vous allez par les rues de la Mercerie jusqu’au pont de Rialto, vous marchez sur des pierres quarrées de marbre d’Istrie, et piquetées à coup de ciseau pour empêcher qu’elles ne soient glissantes; vous parcourez un local qui représente une foire perpétuelle, et vous arrivez à ce Pont qui, d’une seule arche de quatre-vingt-dix pieds de largeur, traverse le grand canal, qui assure par son élévation le passage aux barques et aux bateaux dans la plus grande crue du plux de la mer, qui offre trois differentes voies aux passagers, et qui soutient sur sa courbe vingt-quatre boutiques avec logemens et leurs toits couverts en plomb.[23]

Lo spettacolo piú attraente per lui è quello di una città animata di traffici, di attività, di folla indaffarata e lieta: sicché un’altra descrizione della città (riveduta nel 1734, dopo una lunga assenza) s’inizia poeticamente con la passeggiata che egli fa, appena arrivato, prima ancora di tornare a casa, per le vie da Rialto a San Marco, durante la notte, e culmina nello spettacolo «charmant» delle strade illuminate, con le sue botteghe ancora aperte («plusieurs... ne se ferment pas du tout» nella notte), con la piazza e i caffè pieni di gente («hommes et femmes de toute espèce»), di una folla lieta e desiderosa di divertimento e di conversazione, di espressione corale del proprio animo vitale e sereno:

On chante dans les places, dans les rues, et sur les canaux. Les marchands chantent en débitant leur marchandises, les ouvriers chantent en quittant leurs travaux, les gondoliers chantent en attendant leurs maîtres.[24]

Ma il Goldoni non guarda solo con simpatia profonda (non solo bonarietà spensierata ed arguta) e con cordiale partecipazione sentimentale e poetica alla città degli uomini, alla folla varia e vitale; il suo interesse va anche ai singoli uomini e donne con le loro caratteristiche ridicole e piacevoli, interessanti purché vitali, e insieme nuovi, inconfondibili e pure umani e umanamente comprensibili. Sicché, a parte la galanteria cosí innata e la sempre confessata attrattiva del «bel sesso», Goldoni ammira soprattutto le donne proprio per la loro maggiore vitalità fra attività saggia e capriccio, fra senso di concretezza e tentazione della fantasia irrequieta, avventurosa.

Ché se il Goldoni ha un senso serio della onestà, della saggezza del cittadino onorato, la sua fantasia si accende quando a queste qualità si accompagnano quelle dell’animazione e della spontanea tendenza all’avventura, come in quei personaggi tanto stimolanti per lui e per il suo teatro che sono i comici, gli attori, onesti ed estrosi, affascinanti nelle loro piccole manie e nella loro avventurosità (si ricordi la celebre pagina sul viaggio in barca da Rimini a Chioggia[25] che ha un’attuazione teatrale nell’Impresario delle Smirne), anche quando giungono alla civetteria compromettente della Passalacqua nella scenetta di tentata seduzione nel salotto e nella gondola[26].

E proprio la narrazione di questa avventura, interrotta poi dalla prudenza del galante, ma non libertino Goldoni, ci può condurre ad un’ultima osservazione sull’uomo, sul suo animo pieno di buon senso ma anche libero e vivo. Come «l’uomo dabbene», il «cittadino onorato» (ma anche «avventuriero onorato», come il Goldoni poté chiamarsi nell’omonima commedia) hanno la tentazione e l’esperienza dell’avventura (e la passione del giuoco e la galanteria non furono nascoste nei Mémoires), cosí lo scrittore, attentissimo ad eliminare ogni grossolanità, ogni accenno sconcio e scurrile, era ben ricco di esperienza e di una malizia fine e misurata, per cui in tante deliziose pagine dei Mémoires traspare il rapido balenare della sensualità, e la capacità di abbozzare situazioni scabrose abilmente smorzate e risolte in maniera moralmente ineccepibile che fanno pensare, su diversa intonazione, a certe situazioni sterniane.

Nel suo linguaggio castigato e corretto vibra il calore e il fascino lieto e libero del desiderio amoroso, cosí soave nelle figure di fanciulle in attesa della vita coniugale, cosí malizioso in quelle delle vedove che il Goldoni porta in gran numero nelle sue commedie proprio perché gli permettono di creare piú liberamente questo singolare tono di esperienza, di ricordo e di attesa di nuovo amore.

E se in certi dialoghi piú liberi di servette una piú franca insistenza sulla componente sensuale dell’amore dà luogo a certe battute maliziose e vivaci che solo agli avversari del Goldoni potevano apparire «laidezze» (e sottolineano invece cosí piacevolmente il suo modo di correttezza non frigida, il suo senso cosí concreto, cosí umano e insieme cosí civile ed educato di un aspetto tanto importante e poetico della vita)[27], anche in quella preoccupazione dei genitori di non lasciar mai soli neppure un momento due giovani di sesso diverso, nella aspirazione di dongiovanni e libertini di godere la compagnia, il calore della vicinanza femminile (e al massimo di toccare una mano della donna desiderata) vibra tanto piú sottile e complesso questo sorriso di uomo esperto, preoccupato di evitare ogni accenno immorale, ma tutt’altro che pedantescamente pudibondo e moralisticamente frigido. E si pensi d’altra parte alla gamma complessa di sfumature del motivo amoroso che, fuori di un platonismo da lui tanto poco sentito, egli sa far vivere nelle sue commedie e che fra la malizia, la galanteria, le ansie della gelosia, la sentimentalità appassionata dei giovani innamorati, tanto contrasta con lo schematismo e l’impaccio che caratterizzano, in questa direzione, l’esperienza e l’espressione dei commediografi arcadici[28].

Vivo alla poesia dell’avventura nei limiti della ragione e della realtà, Goldoni è ben vivo a tutto il calore di sentimento dei rapporti fra le creature umane, a tutta la complessa ricchezza concreta della «commedia umana», alla sua sincera, genuina esperienza del «mondo». Sicché, «buon senso», ragionevolezza, moralità non escludono in lui una simpatia profonda per la vitalità nei suoi moventi piú schietti ed elementari, energici e sin drammatici anche se inseriti in un mondo educato e civile. E le sue figure piú vere non sono mai astratti figurini di virtú o mostruosi esempi di vizio, mai, soprattutto, esseri privati di ogni umore e risentimento, e la loro ragionevolezza, la loro civile condotta è sempre insaporita dai vivi fermenti della loro schietta materia umana.

Ed anche in questo il Goldoni esprime con tanta partecipazione originale l’aspirazione migliore del suo tempo a portare nel teatro piú che «lezioni di morale» (come era avvenuto, pur originalmente, soprattutto con il Maggi) figure vive, a unire concretamente l’esperienza del «mondo» e del «teatro».

Qual è la posizione storica del Goldoni? Quale la realtà e la natura del suo intervento, mediante la poesia comica, nella storia ideologico-sociale del suo tempo?

Formatosi – con una cultura prevalentemente teatrale, anche se non unicamente tale – all’epoca di maggiore sviluppo della civiltà arcadico-razionalistica, specie nelle condizioni dell’Italia settentrionale (fra Venezia e i centri veneti ed emiliani dominati dalla presenza del Maffei e del Muratori) e poi successivamente venuto a contatto (fra l’importante esperienza toscana e i nuovi soggiorni veneziani) con le piú generali tendenze dello sviluppo da preilluminismo a vero e proprio illuminismo, il Goldoni visse le condizioni, le aspirazioni, le idealità di tale complesso sviluppo in una misura personale sincera, ma culturalmente e ideologicamente poco approfondita, senza giungere (ché semmai nel periodo francese, fuori ormai della linea piú attiva della sua opera poetica, egli poté meglio adeguarsi a una mentalità di pieno illuminismo[29]) ad una posizione illuministica decisa e pienamente consapevole, quale fu quella di un Parini, uomo di una generazione successiva e già sviluppatasi, prima del Giorno, in una cultura e civiltà nettamente riformatrice e sempre piú illuministica sin nelle direttive del governo riformatore austriaco e nella vicinanza di collaborazione e discussione con i giovani illuminati della «Società dei pugni» e del «Caffè».

Al Goldoni mancò lo stimolo di una situazione concreta di quel tipo ed egli operò piuttosto nelle condizioni politico-culturali tanto meno favorevoli della società veneta in genere e di Venezia in particolare, non prive certo di aperture alle nuove idee, ma infrenate dalla posizione di difesa conservatrice del regime oligarchico e mancanti di veri saldi gruppi di pensatori e letterati attivi nella filosofia dei lumi e nella riforma illuministica[30]. Sicché, mentre si deve parlare giustamente per lui di consonanze illuministiche, o addirittura di illuminismo popolare e medio, e di quel «candido liberalismo» che fu definito cosí acutamente in lui da un celebre saggio di Nino Valeri[31] (e tutta la nostra precedente indagine sulla misura umana del Goldoni si riferisce chiaramente a tale posizione storico-personale), non si può, senza gravi forzature, costruire un’immagine del Goldoni come illuminista persuaso e deciso, come rappresentante o addirittura propagandista di una precisa riforma sociale (e tanto meno politica), di un chiaro precursore di idealità democratiche, egualitarie e miranti ad instaurare un vero ordine nuovo.

Certo gli uomini del periodo rivoluzionario poterono avvertire nella sua opera (cosí piena di spunti egualitari, cosí ricca di un senso schietto della dignità umana, cosí aperta a cogliere e seguire aperture di libertà di rapporti e a sottolineare con viva simpatia i frutti della laboriosità borghese e popolare, il significato letificante dell’onesto esercizio di una vita attiva e razional-naturale) la voce poetica di «temps voisins de la liberté». Ma andare al di là di questo non è lecito, ché altrimenti si rischia una patente falsificazione della reale figura goldoniana.

E cosí ugualmente non si può scambiare con un preciso programma di riforma sociale e di «poetica sociale» la sua acutissima sensibilità per le condizioni degli uomini, per il legame fra «carattere» individuale e i suoi connotati di classe, per i mutamenti di generazioni e di condizioni sociali pur nel ristretto ambito della difficile e viscosa situazione veneziana[32].

Cosí piú che puntare sulla mediocre commedia Il feudatario in cui lo scatto di ribellione di qualche contadino (oltretutto tanto piú di maniera di quanto non siano i vivacissimi personaggi popolari scaturiti dalla sua profonda esperienza veneziana) si risolve in un facile lieto fine di pacificazione dovuto al rinsavirsi di un giovane aristocratico scapestrato e prepotente (solo dall’esterno – quanto dall’esterno! – si può pensare alla situazione del Mariage de Figaro del Beaumarchais), si dovrà rilevare la piú generale e crescente simpatia goldoniana per una ideale situazione di equilibrio, di saggezza umana, di consapevolezza dei limiti della propria condizione sociale che ben si inscrive in una lata tendenza storica e in una mentalità latamente illuministica dominata da valori di rispetto della dignità umana, di riconoscimento della sostanziale comune natura degli uomini pur nella varietà della loro condizione sociale, di simpatia per quanti in quella sappian vivere relazioni di reciproca benevolenza e sappiano opporsi alle tentazioni della sopraffazione, della prepotenza, dell’avido egoismo.

Solo in tale direzione non eversiva e non arditamente e programmaticamente riformatrice è dato di valorizzare, con pieno rapporto di stimolo alla forza poetica che ne scaturisce, il forte, schietto amore del Goldoni per gli uomini, per la loro vita di civile ed umano rapporto, per le loro gioie, per il loro impegno laborioso, per la loro onestà, per i loro diritti alla vita e alla dignità personale.

Solo in tale direzione è dato anche sottolineare fortemente la novità goldoniana di caratterizzazione personale-sociale, il risultato di nuovo schietto realismo (non naturalismo mimetico e fotografico) scaturito nella mossa, simpatetica rappresentazione teatrale di situazioni concrete, non generiche e standardizzate, nella profonda simpatia per la vita autentica e nella critica di tutto ciò che ad essa si oppone e che si configura (nell’acuta sensibilità goldoniana alle condizioni sociali) nel rilievo comico (piú che isolatamente satirico) della chiusura e grettezza della vana boria dei nobili decaduti e squattrinati (i barnabotti della nobiltà veneziana) con le loro sciocche pretese di privilegi senza nessun corrispettivo di forza e di funzione effettiva, della prepotenza egoistica e dissoluta di aristocratici oziosi e viziosi, ma anche della stoltezza di borghesi arricchiti e pretensiosi, aspiranti ai privilegi piú esterni e colpevoli della classe nobiliare e persino di popolani che reagiscono ai limiti della loro condizione non con la dignità e la laboriosità, ma con la furfanteria e l’abbandono a basse passioni.

In tale prospettiva, e nei limiti di una posizione storica senza diretto sfocio (e vera volontà di sfocio) nella distruzione dell’ordine sociale esistente, si può e si deve calcolare la forza di acutezza psicologico-sociale e di simpatia del Goldoni per i nobili di «buon gusto», capaci di far valere la loro situazione privilegiata in favore di una maggiore saggezza e di una piú libera attività civile e benefica, per i borghesi e i mercanti onesti, gelosi della loro onesta reputazione, laboriosi e generosi, per i popolani schietti e autentici anche nelle loro passeggere risse e baruffe: i gondolieri gelosi della dignità del loro mestiere e della loro qualità di cittadini della repubblica, le fanciulle, le mogli, le «massere» oneste e attente alla loro virtú, i pescatori chiozzotti di cui il poeta nella prefazione alle Baruffe disse di voler rappresentare «i loro costumi e i loro difetti e, mi sia permesso di dirlo, le loro virtú».

Il fatto che le commedie popolari si accrescano nell’ultimo periodo veneziano vorrà confermare, piú che il culmine di un preciso programma legato ad un’altrettanto precisa diagnosi della situazione veneziana (che avrebbe portato il Goldoni a perder fiducia nel ceto dei mercanti e dei borghesi e a sentire il popolo come vera risorsa e riserva di energie della sua città in declino), una crescente apertura della sua simpatia umana e poetica (già viva del resto per i gondolieri e le «putte oneste» in commedie giovanili) a strati che la convenzione teatrale e una concezione reazionaria riteneva bassi e indegni di rappresentazione teatrale (con l’incentivo della polemica con il conservatore Gozzi) e che egli sentiva invece parte viva, essenziale di un vasto tessuto sociale, parte viva, essenziale della vita, anche se il «cogidore» autobiografico non mancherà di rilevare con affettuosa curiosità i limiti della loro stessa incantevole istintività. E allora, piú che alla luce di un preciso programma eversivo e combattivo, si potrà pur ben capire – alla luce della crescente forza e apertura di simpatia umana e poetica del Goldoni – il valore implicito di una tale acquisizione del mondo popolare alla dignità del teatro e della rappresentazione poetica, si potrà capire l’estensione e l’importanza del «candido liberalismo» del Goldoni e del suo illuminismo medio e poco ideologicamente approfondito, ma concretamente vivo e capace di farsi sostegno di vera poesia.

E tanto piú questa rifiuterà giustamente – vera poesia perché veramente scaturita da una tensione personale accordata con un tempo e una civiltà – la sua riduzione alle forme del «teatro puro», dell’alto divertimento scenico-ritmico senza interna tensione e giustificazione, della sua pura continuità con la commedia dell’arte dalla cui schematicità e astrattezza viceversa il Goldoni, in forza della sua tensione umano-poetica, del suo realismo, della sua sensibilità sociale, della sua fiducia in un mondo vero e naturale, seppe sciogliere il proprio teatro, pieno di una formidabile vita di persone e di situazioni, di un’eccezionale carica di realtà storicamente e socialmente connotata, pur recuperando da quella la lezione di ritmo scenico, di azione scattante e inventiva. Ché la meta alta dell’iter poetico goldoniano non sono Arlecchino servitore di due padroni o I due gemelli e neppure il tardo e pur geniale Ventaglio, ma le grandi commedie dell’ultimo periodo veneziano in cui la perfezione tecnico-teatrale nasce tutta interamente dalla sua giustificazione interna, dalla forza del «mondo» portato in teatro, dalla simpatia poetica per un ritmo vitale prima che teatrale, costretto e perciò poeticamente liberato in situazioni concrete, in spazi e tempi concreti, in azioni mosse dagli uomini e per gli uomini risolte.

Poeta dell’umano e dei rapporti umani, della poetica simpatia per la vita nella sua concretezza associata (mai dell’uomo solo o dei suoi problemi astratti e metafisici), il Goldoni trae la forza del suo grande teatro, della sua perfezione di ritmo scenico, dalla forza del suo sentimento profondo e poetico di questa vita di rapporti, di dialogo, di colloquio ora piú circoscritto in urto e attrito di pochi personaggi piú rilevati e particolareggiati ora piú aperto e corale, ma sempre bisognoso, per intima necessità, del saldo tessuto di una società e di una situazione concreta e in interno movimento, in cui inquietudini e pene non sono assenti, ma sono vinte e superate da quella umana letizia, da quella lieta energia della vitalità in movimento che può ben compensare la mancanza di una «divina malinconia» che, secondo De Sanctis e Croce, limiterebbe (ma cosí fuori della sua vera realtà umana, storica, poetica) la «poesia» del Goldoni.

Ed è poi vero che manchino patine, aure e increspature «malinconiche» (se non di «divina malinconia») nelle inquietudini riequilibrate e non perciò meno percepibili, di tanti suoi personaggi e di tante sue situazioni?

Anche in sede letteraria il Goldoni non ha posizioni eversive né una chiarezza di poetica che rompa decisamente e clamorosamente con la tradizione, anche perché la sua cultura è piuttosto limitata e soprattutto teatrale.

Eppure non è accettabile una sua definizione di semplice prosecutore della riforma arcadica, rispetto alla quale anche in sede di letteratura e di linguaggio troppa è la differenza di livello e di intensità della sua concreta, attiva prospettiva di poetica, troppa è la novità della sua opera anche quando egli riprende motivi e programmi che risalgono al Muratori, al Maffei, al Marcello, ai trattatisti arcadici o ai comici «pregoldoniani» di primo Settecento.

Nelle linee piú generali della riforma arcadica Goldoni porta una pienezza di vita, una forza di simpatia attiva per la vita e per la società umana che di fatto le rinnovano e le caricano di un ben diverso valore storico e poetico.

Lo vedremo direttamente parlando della sua «riforma» specie all’altezza del Teatro comico e, in varie occasioni, seguendo lo svolgimento della sua operosità comica. Ma fin d’ora van fermati chiaramente alcuni punti fondamentali: il profondo senso che il Goldoni ebbe della realtà umana non preventivamente selezionata e idealizzata, la schiettezza del suo interesse per il «naturale», il «vero», del suo amore per le situazioni effettive nel loro «limite» concreto amato contro ogni decurtazione «ideale» e contro ogni svaporamento fantastico e sentimentale, la intensa ricerca dell’alacrità e spontaneità del movimento e del ritmo della realtà e dentro la realtà delle situazioni e dei personaggi sempre connotati socialmente e umanamente (carattere e ambiente si fondono – pur nelle varie punte della ricerca poetica – al culmine della prospettiva goldoniana); la sicurezza e vocazione del dialogo, fino al dialogo concertato e corale, che presuppone un possesso intimo del rapporto umano e civile tanto superiore e piú maturo della prudente socievolezza arcadica e sorregge il dialogo teatrale con la poetica intuizione storico-personale appunto di un dialogo «preteatrale»[33] come forma fondamentale di vita tutta realmente immanente e inimmaginabile fuori dei rapporti e dei nessi fra gli uomini, del cerchio saldo e fervido dei loro interessi ed affetti.

Cosí si capiscono e si possono valorizzare anche certe affermazioni del Goldoni, fuori del piú preciso campo teatrale, quali si ritrovano in una zona solitamente meno esplorata: quella dei componimenti «poetici» occasionali e per lo piú artigianali e commissionati in cui (oltre a tanti elementi che confortano la nostra precedente interpretazione della «misura umana» del Goldoni) spiccano ironiche dichiarazioni sia contro i residui barocchi (ché la netta antipatia goldoniana per il barocco sembra prender di mira anche quanto di baroccheggiante poteva celarsi entro la stessa rivolta antibarocca operata dall’Arcadia) soprattutto in nome di una comunicabilità e comprensibilità piú generale e «democratica» («Qua no ghe xe metafore o conceti / el stil tuti l’intende e tuti el sa»[34]), sia contro le tentazioni erudite-classicistiche (un componimento per nozze inizia con una invocazione mitologica, «Pronuba omai discendi / bella dea di Amatunta», ma subito si interrompe dichiarando: «la via ch’io presi è al mio costume ignota»[35]) sia contro la Crusca bersagliata spessissimo per le sue pretese dell’esclusività linguistica fiorentina («Per mieter palme all’apollinea riva / deesi la crusca adoperare ovunque»[36]) sia contro il «fare grande» pindarico-chiabreresco[37], di fronte al quale e alle varie forme arcadiche petrarchistiche e bernesche[38], il Goldoni afferma sempre piú chiaramente la sua volontà di naturalezza e semplicità, la fedeltà del suo stile al «vero»: stile che egli sente vicino, piú che a quello di qualunque letterato, allo stile del Longhi[39].

Ed è cosí che la stessa umiltà con cui il Goldoni distingue il suo stile «solito sia che parli in prosa o in rima»[40], dai «voli poetici sonori»[41], dalla poesia «alta», viene in realtà a cambiarsi nell’affermazione della sua poetica del naturale («l’Apollo mio della natura è il lume»[42]), e in una certa giustificazione del valore limitato, non programmaticamente indicativo di questa stessa produzione minore vòlta, nei limiti di occasione notata, all’espressione del «vero» nelle sue forme piú umili e quotidiane.

È su tale direzione che si può anche meglio spiegare il ricambio effettivo nell’unitario linguaggio comico goldoniano fra la lingua nazionale e il dialetto veneziano (magari con la sua variante chiozzotta nelle Baruffe) verso un linguaggio vero e inventato, naturale e poetico che è certo fra le vie espressive piú originali e moderne della nostra letteratura settecentesca: senza con ciò volere poi nascondere il fatto che viceversa la linea piú classicistica fu, specie nella direzione pariniana e nell’uso preromantico che ne fece genialmente l’Alfieri, piú centrale e operante e fu pure storicamente capace di esprimere, entro i limiti della civiltà settecentesca, contenuti vigorosi e nuovi.

Il linguaggio goldoniano, articolato in dialetto, lingua italiana e francese (soprattutto come linguaggio narrativo-dialogante dei Mémoires), nasce come risposta a un’esigenza anzitutto di comunicazione e di dialogo, di colloquio, che è esigenza preteatrale e profondamente inserita nella stessa viva interpretazione goldoniana della spinta settecentesca (già viva nell’epoca arcadico-razionalistica e piú sviluppata a metà Settecento nell’insorgere della civiltà illuministica) ad una vita di rapporti attuali, presenti, quotidiani fra uomini concreti, in tempo concreto, in una società effettiva, progressivamente liberata da ogni vera tensione al trascendente, persuasa del fatto che la stessa intimità personale non è mai veramente acquistatile ed esercitabile se non nella sollecitazione del rapporto con gli «altri».

In tal modo si comprende come la stessa «riforma» teatrale corrisponda a tale profonda esigenza e implichi non la facile continuità fra la commedia dell’arte e la commedia riformata (o viceversa l’assoluto rifiuto delle offerte positive della prima), ma un recupero profondo dell’«improvviso» teatrale in forme piú interne di spontaneità dialogica e colloquiale che, nel linguaggio teatrale maturo del Goldoni, vengono risolte nelle forme superiori e poetiche di un «concertato» (per usare termini del migliore studioso del linguaggio goldoniano, il Folena) in cui la concretezza del dialogo come espressione del contingente, del quotidiano, dell’attuale fruizione della vita (a volte non priva di pene e turbamenti) si esalta in una specie di sublimazione poetica del fluire della realtà umana, della profonda, istintiva e razionale simpatia per la vita.

Tale conquista attuata nel teatro (dove dialetto e lingua italiana convergono in una condizione di lingua teatrale che sottrae anche la lingua italiana a ogni esigenza normativa strettamente letteraria) si realizza attraverso il vivo scambio delle due esperienze di dialetto e lingua (questa accetta dal primo la sua elementare struttura ipotattica con povertà di nessi subordinativi, quello riprende dalla seconda la tendenza ad un lessico ricco e neologistico) e culmina, in coerenza con tutta la organica maturazione della personalità e dell’arte goldoniana, nelle grandi commedie dell’ultimo periodo veneziano in cui il «concertato» teatrale è perfetto e traduce la piú profonda poesia goldoniana nella sua globale e concreta espressione della gioia vitale, della vita di tutti i giorni, della laboriosità e degli abbandoni festosi degli uomini, celebrata nel loro essere insieme, nel loro rapporto da cui nascono l’attrito e la letizia, mai la delusione totale e la tentazione peccaminosa della solitudine e dell’evasione.


1 Si veda il piú lungo e omonimo mio saggio in Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit., dove pure il lettore può trovare un altro mio studio, qui ripreso in alcuni dei suoi elementi, su Goldoni rimatore, nonché una serie di recensioni e di interventi goldoniani; altre mie recensioni successive possono trovarsi nella sezione Settecento della mia rivista «La Rassegna della letteratura italiana», edita dalla Casa Sansoni di Firenze. [Il saggio «piú lungo e omonimo» al quale Binni si riferisce è qui riprodotto alle pp. 57-70]

2 Rinvio ad un mio intervento sulla relazione di G.G. Ferrero a proposito dei rapporti fra Mémoires e Vita alfieriana al Convegno goldoniano di Venezia del 1957 (in Classicismo e Neoclassicismo cit., pp. 299-300) [qui alle pp. 53-54].

3 Come si può tra l’altro vedere da un passo dei Mémoires, in cui rievocando i suoi studi filosofici a Rimini parla con ironia del professore «che era tomista fin nel fondo dell’anima», deride i suoi termini e ragionamenti «scolastici», e poi aggiunge: «La Philosophie moderne n’avoit pas encore fait les progrès considérables qu’elle a fait depuis, et il falloit se tenir (les Ecclésiastiques surtout) à celle de Saint Thomas ou à celle de Scot, ou à la péripatéticienne, ou à la mixte, qui toutes ensemble ne font que s’écarter de la Philosophie du bon sens» (première partie, chap. IV, in Opere, ed. cit., vol. I, p. 22).

4 Opere, ed. cit. vol. XIV, p. 278.

5 Mémoires, première partie, chap. XXXII, in Opere, ed. cit., vol. I, pp. 147 ss.

6 Cfr. E. Vittorini, Introduzione a C. Goldoni, Commedie, I, Torino 1952.

7 Opere, ed. cit., vol. xiv, p. 216.

8 Mémoires, première partie, chap. xiv, in Opere, ed. cit., vol. i, pp. 61-63.

9 La falsa devozione lo porta addirittura ad un certo tono di sdegno, come si può vedere nel racconto della seduzione che una falsa devota napoletana esercita su di un giovane americano bigotto. Prima il tono è di commedia (la donna chiama un giorno il giovane, lo fa inginocchiare davanti ad un’immagine sacra, lo invita a ringraziare la Vergine e Dio e a gridare al miracolo perché il marito è morto ed essa può sposare il giovane americano), ma poi nella riflessione sull’ipocrisia, unica qualità che non si può perdonare ad una donna, il tono si fa piú amaro e reciso (Mémoires, troisième partie, chap. xxxv, in Opere, ed. cit., vol. i, pp. 586-587).

10 Cfr. Prefazioni all’edizione Pasquali delle Commedie, in Opere, ed. cit., vol. i, p. 660, dove il Goldoni fa la caricatura di una di queste sue crisi, quando va dal padre «in aria di penitente e col collo torto» a dirgli che voleva farsi frate, e il padre, che era un uomo dabbene, ma non bacchettone, e che lo voleva «cristiano, ma non santocchio», conobbe subito «che i suoi vapori erano la sua ispirazione» e con un po’ di distrazione e di vita socievole gli tolse ogni desiderio di «chiostro» e di «cappuccio».

11 Non si dia eccessivo peso alla commedia Le donne curiose del 1753, in cui la rappresentazione della vita di una loggia massonica (spiegata come ritrovo dove «si discorre delle novità del mondo, si leggono dei buoni libri, si giuoca a qualche giuoco d’ingegno senza l’interesse di un soldo. Qualche volta si pranza, qualche volta si cena, si passano due o tre ore in buona società, da buoni amici e si gode il miglior tempo di questo mondo») è solo prova della diffusione massonica in Italia e a Venezia e dell’attenzione del Goldoni a questo nuovo importante fenomeno di associazione pratico-ideologica bonariamente risolto (e magari difeso) nelle sue forme piú conviviali e latamente culturali-progressive, senza che ciò implichi né la certezza di un’attività muratoria del Goldoni né, tanto meno, di una sua adesione alla religiosità massonica. Sul problema dell’appartenenza del Goldoni alla Massoneria, a parte precedenti e labili congetture, si veda adesso nel bel libro di C. Francovich, Storia della Massoneria in Italia dalle origini alla Rivoluzione francese, Firenze 1974, il capitolo I liberi muratori a Venezia e le pagine ivi dedicate al Goldoni e alle Donne curiose. Comunque la conclusione del Francovich resta dubbia circa l’appartenenza o meno del Goldoni alla libera muratoria e ciò che resta sicuramente escluso è quanto sopra dico circa quel tipo di religiosità deistica massonica che in genere non manca anche nella versione piú libera e progressista della massoneria inglese cui il Francovich avvicina la sopraddetta commedia.

12 Del resto simili dichiarazioni di modestia coincidono bene anche coll’ironico rifiuto di tendenze della poesia settecentesca che il Goldoni avverte aliene dalla sua poetica perché generalmente velleitarie e retoriche.

13 E si noti ancora che, mentre questi componimenti sono chiaramente «commissionati» e appartengono alla zona di vita veneziana, i Mémoires parigini documentano sia una maturata adesione a elementi anticlericali dell’illuminismo francese piú avanzato sia una maggiore autenticità della piú vera prospettiva goldoniana liberata dalle remore della società e del governo veneziano e aperta dal diverso clima culturale di Parigi.

14 Opere, ed. cit., vol. xiii, p. 350.

15 Opere, ed. cit., vol. xiii, pp. 631-632.

16 Infatti, se l’impresa della riforma del teatro comico non manca della componente della volontà di gara dello scrittore italiano con il teatro comico francese e di riconquista di un primato italiano perduto, il Goldoni non ha però il chiuso e geloso orgoglio nazionale di altri riformatori letterari settecenteschi e sarà ben significativa la sua frase a proposito delle polemiche sulla musica italiana e francese: «Si un air me touche, s’il m’amuse, je l’écoute avec délice, je n’examine pas si la musique est Françoise ou Italienne; je crois même qu’il n’y en a qu’une» (Mémoires, troisième partie, chap. VI, in Opere, ed. cit., vol. I, p. 462).

17 Tipica in tal senso la commedia Il cavaliere di buon gusto, in cui il protagonista non disdegna di associarsi all’attività commerciale di Pantalone e protesta contro l’inutile albagia dei suoi «colleghi» (direbbe il conte di Roccamarina del Ventaglio). O si pensi alle Donne puntigliose in cui si condanna la inutile velleità della «mercantessa» di mescolarsi alle «dame», e di queste si rileva a chiare note la stupida boria e i compromessi indecorosi fra i loro pregiudizi di casta e l’avidità del denaro in gran parte passato nelle mani dei disprezzati mercanti.

18 Si veda la pagina dei Mémoires in cui descrive l’orrore provato allo spettacolo della pubblica ritrattazione imposta dalle autorità religiose al Vicini a Modena (première partie, chap. XVIII, in Opere, ed. cit., vol. I, pp. 84-85).

19 Il Croce capí ben poco del Goldoni come scrittore teatrale e come scrittore tout court, relegandolo nella «letteratura» e fuori della «poesia», riprendendo e rattrappendo il pregiudizio desanctisiano della mancanza nel Goldoni della «divina malinconia» come essenziale alla vera poesia (cfr. B. Croce, La poesia, Bari 1936, pp. 257-258). Rinvio in proposito (e in proposito dell’insensibilità crociana alla dimensione teatrale) al mio Poetica, critica e storia letteraria, Bari, Laterza, 1963, pp. 42-43 (cito sempre dall’ultima edizione, ivi, 19767). Per una storia del problema critico goldoniano rinvio al capitolo Goldoni di F. Zampieri nel ii volume dell’opera I classici italiani nella storia della critica, da me diretta, La Nuova Italia, Firenze 1955, 19723.

20 Abbreviazione del cognome dello studioso russo bianco C. Miclacevsky che, su di una distorta estensione del grande teatro-puro russo prerivoluzionario, contrappose duramente e faziosamente (con un chiaro fondo di ritorni di fiamma aristocratici e di esaltazione mistica della libera fantasia e del giuoco) Goldoni «petit bourgeois rassis et plein de bon sens» a Carlo Gozzi con le sue «brillantes phantaisies» di «aristocrate décadent» (in La «commedia dell’arte» ou le théâtre des comédiens italiens des XVI, XVII, XVIII siècles, Paris 1927, rifacimento inasprito di una precedente opera in russo del 1914-17). Si veda ora per una delineazione storica delle interpretazioni e regie goldoniane in Russia prima della rivoluzione di ottobre il saggio di R.I. Chlodovskij, con una mia breve replica, in Atti del colloquio italo-sovietico: Goldoni nel teatro russo e Cechov nel teatro italiano, Accademia dei Lincei, Roma 1976.

21 Lettera a Gabriele Cornet del 6 settembre 1762, in Opere, ed. cit., vol. xiv, p. 259.

22 Mémoires, deuxième partie, chap. xxxvii, in Opere, ed. cit., vol. I, p. 401.

23 Mémoires, première partie, chap. vii, in Opere, ed. cit., vol. I, pp. 35-36.

24 Mémoires, première partie, chap. XXXV, in Opere, ed. cit., vol. i, p. 161.

25 Mémoires, première partie, chap. v, in Opere, ed. cit., vol. I, pp. 24-26.

26 Mémoires, première partie, chap. xxxviii, in Opere, ed. cit., vol. I, pp. 172-174.

27 Pensiamo alla servetta che all’inizio del Servitore di due padroni commenta maliziosamente l’ansia dell’innamorato Silvio che non pensa al pranzo, tutto attento com’è alla fidanzata («certo che questa è la migliore vivanda», Atto I, sc. I), o alla Corallina della Castalda che provoca l’innamorato Frangiotto, geloso del padrone, ad una battuta assai significativa per questo vibrare di malizia nel linguaggio impeccabile (Atto I, sc. 7):

Corallina Di che cosa potete voi dubitare?

Frangiotto Che siccome facciamo noi a metà col padrone de’ beni suoi, egli non abbia a fare a metà con me del cuore di mia consorte.

Corallina Del cuore non sarebbe gran cosa.

Frangiotto Sí, ho parlato con modestia. Ma c’intendiamo; quando dico del cuore, m’intendo anche della coratella.

28 Per il teatro comico arcadico rinvio al mio volume L’Arcadia e il Metastasio cit., e alle mie pagine relative a quella attività teatrale di primo Settecento, nel volume Il Settecento della Storia della letteratura italiana dell’editore Garzanti.

29 Si potrà allora ricordare (piú che puntare sul significato di casi isolati di amicizie «rivoluzionarie», come quella con John Wilkes) nella stessa dedica dei Mémoires a Luigi xvi la consonanza fiduciosa (sempre assai prudente e siglata dal riconoscimento dello «zèle paternel» del re) del Goldoni con l’aspettativa di un’attività regale sempre piú volta al bene dello stato e al «soulagement de son peuple» e di tempi in cui prospereranno «les projets d’ordre et de bienfaisance, dont Votre Majesté s’est si utilement et si vigoureusement occupée». Ma, ripeto, ciò era frutto di una situazione e di una disposizione assai diverse da quelle entro cui si precisò l’attività poetica concreta praticamente esaurita, nella sua piú vera forza, nell’ultimo soggiorno veneziano e nelle grandi commedie del ’59-62.

30 Per la situazione particolare di Venezia e del Veneto, nella seconda metà del Settecento, si rinvia al fondamentale libro di M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento, Firenze 1956, nonché ai capitoli riguardanti la repubblica veneta nel primo volume della Storia d’Italia moderna (1700-1815) di G. Candeloro, Milano 1956, nei volumi secondo e terzo della Storia d’Italia, a cura di N. Valeri, Torino 1965, al paragrafo sugli illuministi veneti di F. Diaz nel Settecento della Storia della letteratura italiana dell’editore Garzanti, Milano 1968, alla parte di N. Badaloni su La cultura, in Storia d’Italia, III, Dal primo Settecento all’Unità, Torino 1973.

31 N. Valeri, Intorno al Goldoni, in «Civiltà moderna», a. III, n. 5, 15 ottobre 1931, pp. 957 ss.

32 Si vedano in proposito i miei interventi ricordati (in Classicismo e Neoclassicismo cit., e in varie annate della «Rassegna della letteratura italiana») sulle posizioni sia del critico sovietico A.K. Givelegov, sia di M. Dazzi, di F. Fido, di M. Baratto, di G. Petronio, variamente sollecitanti nella loro varia carica di tendenziosità, e nella loro diversa estrazione marxista e a volte «paleo-marxista» o addirittura pseudomarxista. Di gran lunga il piú stimolante e fine è il saggio di M. Baratto, «Mondo e teatro» nella poetica di C. Goldoni, Venezia 1957.

33 Cfr. G. Folena, Il linguaggio del Goldoni: dall’improvviso al concertato, in «Paragone», 94, 1957; L’esperienza linguistica del Goldoni, in «Lettere italiane», I, 1958.

34 Opere, ed. cit., vol. XIII, p. 196.

35 Opere, ed. cit., vol. XIII, p. 735.

36 Opere, ed. cit., vol. XIII, pp. 478-479, 482.

37 Opere, ed. cit., vol. XIII, p. 550: «Ma guai a me se colla cetra allato / Pindaro seguitando e il buon Chiabrera / uscir volessi dal mio stile usato».

38 Opere, ed. cit., vol. XIII, p. 632: «Perché el Petrarca non imito o el Dante, / perché seguito el stil che piase a mi, / e no quello del Berni o del Morgante».

39 Opere, ed. cit., vol. XIII, p. 187: «Longhi, tu che la mia Musa sorella / chiami del tuo pennel che cerca il vero».

40 Opere, ed. cit., vol. xiii, p. 250: «So che i carmi sonori il mondo stima / e l’umil verso è riputato vile; / ma il facile ed il ver fu ognor mio scopo».

41 Opere, ed. cit., vol. XIII, p. 762: «E se el mio stil no piaserà ai poeti / che no vol che se daga poesia / senza imagini nove e bei conceti, / poco m’importa. Dar se poderia / che piasesse a qualcun sto far sincero / piú assae dei sforzi de la fantasia, / e che dopo aver leto un libro intiero, / pien de voli poetici sonori, / piasa a qualcun semplicemente el vero».

42 Opere, ed. cit., vol. xiii, p. 472.